La “mandria tuoneggiante”. La traduzione non suona poi così bene, né tantomeno riflette con precisione un luogo dove magari il basket non è sempre stato il primo pensiero, anzi dove quel tambureggiante suono, si riferisce ai caschi del football o alle presse delle acciaierie. Già, perché a Huntington West Virginia, a un tiro di schioppo dalla grande acciaieria affacciata sul fiume Ohio, c’è una scuola, la Marshall University, in cui mito, leggenda, lacrime e gioia sanno alternarsi con ciclica cadenza.
La differenza tra scrivere ed essere dal lato “giusto” della storia è sottile, quasi come il getto della fontana che si trova al centro del campus di Marshall. Non è solo ornamento artistico: è il simbolo di un passato che non può essere dimenticato, di una tragedia, quella del 1970, che spazzò via in un battito d’ali buona parte della squadra di football che stava ben figurando in D-1 in quegli anni, ma che fece anche venir fuori in maniera prepotente carattere di uomini e donne di quella zona. E che il “tuono verde” potesse tornare a risuonare.
Non solo football, anche se, il messaggio che ricevette Press Maravich quando arrivò a Clemson era: “Football comes first”.
Di basket, però, in questo college della West Virginia, si è parlato davvero tanto, o meglio, si è pensato in modo diverso a come immaginare e trasformare fase offensiva e difensiva, proprio negli anni in cui gli Stati Uniti stavano allattando quel gioco inventato da Mr Naismith. Fondi pochi per le palestre, ma buona parte del salary schedule era fondato su trainer di buon medio livello, che il football prestava anche alla pallacanestro, specie quando la figura dei coach coincideva nella stessa persona. E un po’ come dal cilindro di un mago, ne esce un sistema di gioco che oggi domina la NBA, uno dei meno vincenti della storia (forse, anche se i Warriors hanno smentito sonoramente tale tradizione), ma di sicuro uno di quelli che sanno creare quel love of the game che scorre nelle vene degli appassionati.
L’EVOLUZIONE OFFENSIVA PRESA DAL FOOTBALL
Anche Press Maravich, nelle sue diaboliche lezioni a Pistol Pete, ovviamente improntate nell’attacco, predicava una pallacanestro in cui il suo playmaker arrivasse con padronanza di mezzi alla linea di tiro libero, si arrestasse e decidesse il destino dell’azione, in seven seconds or less. Era la dottrina che Cam Henderson aveva inventato per la squadra di pallacanestro della Marshall University che negli anni sotto la sua guida, dal 1935 al 1955, avrebbe vinto svariate volte la Ohio Valley League, nonché nel 1954 la NAIA League. Il concetto di Henderson – che mutuava le basi dal football, di cui era allenatore, ma soprattutto dalla verticalità della visione di un quaterback – era semplice e lineare:
In attacco il campo veniva diviso in più “Lines” di corsa, delle autentiche tracce da seguire per i giocatori da riempire al massimo della velocità. Proiettarsi in avanti e aspettarsi il passaggio del play, che poteva arrivare e doveva arrivare nel momento in cui la difesa non se lo sarebbe aspettato.
È la nascita del contropiede moderno per quello che riguarda un attacco di run and gun, a cui si associava spesso una 2-3 di prima generazione tanto mobile ed intercambiabile quanto fisica. La vittoria della NAIA League del 1954 era il coronamento della carriera di Henderson, con ciliegina sulla torta l’inserimento nella sua rotazione di quel Hal Greer che sarà All Star, compagno di Chamberlain ai Sixers e inserito nella Hall of Fame.
Se parliamo di seven second or less, però, ad oggi il più diretto riferimento è agli Houston Rockets, o anche ai passati Phoenix Suns. Tutti gli indizi portano a Mike D’Antoni e il tema torna calzante, non soltanto perché Mike, così come suo fratello Dan, ha vestito il verde di Marshall ed è nell’elite dei giocatori passati da questa università.
Mike D’Antoni prima di vestire le maglie NBA e di arrivare a Milano, è stato colonna di Marshall e, in seguito, ne rappresenterà l’evoluzione.
Non solo adotterà sul campo quella 7 second or less che aveva praticato in prima persona, ma metterà al servizio del “sistema” la sua ineffabile visione di gioco, quella che aveva caratterizzato gli anni di Huntington, quando per punti, assist e recuperi, dominava a mani basse l’intero rendimento del college con la sua maglia #10, oggi ritirata. Se abbiamo detto che al centro di Huntington, neanche troppo distante dal campus, c’è la florida acciaieria ovvero uno dei motori locali nel corso della storia della locale comunità, la storia della famiglia D’Antoni, emigrata negli States da Nocera Umbra, si inserisce perfettamente nella sceneggiatura di chi, anche attraverso tante difficoltà, è riuscito a ritagliarsi un posto negli annali.
DAN D’ANTONI E LA CONCEZIONE DI FAMIGLIA
Quando Luigi D’Antoni, o come lo chiamerebbero “loro” Louis, aveva scelto di portare la sua famiglia dall’altra parte dell’oceano cercando fortuna, non sapeva che la sua vita sarebbe cambiata non solo dal punto di vista lavorativo, ma anche e soprattutto umano. La possibilità di mantenere i propri cari lo aveva riavvicinato all’amore ancestrale per un gioco che da quelle parti aveva appunto in Henderson, ma anche e soprattutto nel suo assistente Rieslin, due massimi cultori e maestri. Dan prima e Mike poi, cresciuti cestisticamente nelle high school locali con quel tipo di mentalità, l’avrebbero fatta propria e portata all’estremo sul campo prima e dal legno della panchina poi.
Sono in tanti ad essere poi passati da Marshall University, potremmo citare Jason Williams – che sarebbe il playmaker più adatto a quella 7sol di cui abbiamo detto – e Hassan Whiteside, o perché no anche Billy Donovan, attuale coach dei Thunder. Marshall University aveva fatto delle fugaci apparizioni – quattro per la precisione – al torneo NCAA, uscendo al primo turno puntualmente.
L’avvento sulla panchina di Marshall di coach Dan D’Antoni – dopo le sue esperienze da assistant coach di Mike – ha riconciliato non solo un basket con il suo bacino di nascita, ma anche una comunità che si è stretta di nuovo intorno ad una squadra vincente come non capitava da tempo. Improvvisamente, poi, ecco arrivare l’upset rifilato a Wichita State, non proprio l’ultima arrivata, con oltre 25 tiri da tre presi, tre ragazzi oltre quota 20 e un ritmo insostenibile anche per una buona squadra come gli Shockers. La prima vittoria non si scorda mai, ma il prossimo turno non è una gara qualsiasi.
Sarà derby, anzi, stracittadina o quasi, contro West Virginia, in un match dove il cuore potrebbe contare più che il talento. Sono coincidenze? Difficile a dirsi. La verità è che forse il sistema da seven second or less, a meno che non hai Curry e Durant a roster, è difficile da considerare vincente – con forse l’eccezione rappresentata dalla Sassari di Meo Sacchetti che, mutatis mutandis ne riprende le basi – ma regala, se ci si crede davvero, la possibilità di poter vincere (ma anche perdere) contro chiunque, perché premia il coraggio e non solo la profondità di squadre e salari.
Sarà la carta vincente dei “thundering herd“?