Parlare di sacro e profano quando ci si riferisce alla penisola balcanica è sempre un campo minato, ma quando ci si trova di fronte a determinate combinazioni di talento e personalità, la normalità non può certo bastare.
È impossibile da spiegare come un centro di oltre 210 cm e con un fisico “rotondo” riesca a tirare con squisita sensibilità di rilascio, catturare tanti rimbalzi, ma soprattutto dirigere le operazioni del gioco con tempismo e visione di passaggio degne di un playmaker.
Sarà che in Serbia sono di una pasta diversa, sarà forse che giocare in squadra con un visionario come Teodosic può cambiarti l’esistenza, ma quello che Nikola Jokic sta facendo nel suo percorso NBA ha ben pochi precedenti.
Riassumono per noi gli aruspici e i santoni della terra slava: Dažbog (dare + dio) una divinità che racchiudeva in sé il ciclo della vita, del sole, della pioggia e del fuoco e che nasceva e moriva ogni giorno, capace di tutto…
GLI INFLUSSI DI VARDA E MILICIC…QUEL MILICIC
Questo numero tre, che potremmo anche definire tripla doppia, vista la prestazione di qualche settimana fa contro i Bucks – per inciso la più veloce della storia e con un pregevole 11/14 dal campo – tende a ritornare puntuale nella vita del giocatore in forza ai Denver Nuggets, di cui adesso è la punta di diamante. Il draft non è una scienza esatta, ma una scelta di un giovane prospetto europeo –o meglio l’accaparrarsi i diritti sullo stesso– nel bel mezzo del secondo giro, tende ad essere più una speranza che un reale rinforzo per la squadra chiamante, in quell’ottica tutta americana del rimescolamento delle carte.
Niko non giocava nelle giovanili del Mega Vizura, ma aveva ben figurato con la canotta serba nelle estati delle nazionali under, anche se nessuno, neanche il buon Tim Connelly che lo stava scegliendo, poteva prevedere tutto quello che ne sarebbe derivato. È proprio qui che la ciclicità inizia a fare il suo corso. Se per i conoscitori meno accaniti della storia NBA il mondo slavo si ferma alle pietre miliari che Petrovic, Divac e Stojakovic hanno rappresentato negli anni ’90, la verità è che quel sangue coriaceo e pugnace di terra balcanica ha bagnato i parquet americani anche con giocatori di cui non ricordiamo propriamente le gesta, ma che han portato esperienza al giovane Jokic: Ratko Varda e Darko Milicic.
Varda è stato un lungo di buone speranze ma che, al contrario di Jokic, non aveva quella stazza e quella mole per poter mettere a frutto il suo talento. Il centro dei Nuggets si è formato avendo come punto di riferimento il buon vecchio Ratko, di cui ha preso le movenze in post e il portamento autoritario. Quando Varda è andato via dal Mega Vizura, Jokic ne ha preso il posto, esplodendo in lega adriatica prima e nella Serbian League poi. Strano, doveva essere l’anno di delusione seguente alla chiamata al draft senza contratto da parte dei Nuggets.
Qui entra in gioco Milicic, l’incredibile scelta alla #2 dei Pistons, attuale kickboxer, ma grande amico di Jokic e della sua famiglia. Un giocatore che è stato passato al tritacarte, che ne ha viste e subite di tutti i tipi, magari sopravvalutato nel talento, ma in grado di essere il mentore ideale di un ragazzo in rampa di lancio e con la giusta fame. Dopo l’exploit europeo, Jokic prende finalmente l’aereo e viene iscritto a referto dai Nuggets per l’inizio della sua scintillante carriera, che lo ha portato fino agli onori della cronaca recente. Eppure in Serbia non negano che sarebbe potuto essere un eccelso fantino, anche se ad immaginarlo vincente con quel corpo su un cavallo ci vuole parecchia fantasia.
IL PIÙ GRANDE AFFARE NBA
La sua grande capacità è stata di non forzare i tempi, adattarsi al mondo dei pro, almeno agli inizi, prima d’imporsi nella rotazione con il suo gioco, le sue skills e letteralmente stravolgere le carte in tavola. Del resto i Nuggets non hanno mai avuto fortuna in post season e hanno l’abitudine di cambiare i propri equilibri di squadra con fare repentino, un po’ come quando scambiarono Billups per Iverson o Anthony per mezza New York. Le svolte della franchigia cara ai cercatori dell’oro sulle Mountains potevano essere quelle legate alle mani grandi di Mutombo dopo lo sweep contro i Sonics a metà anni 90’ o a quelle cotonate di Abdul Rauf che incantavano i puristi del tiro.
Non un caso che nessuno dei due protagonisti sopracitati avesse quel quid distintivo americano e ancor meno casuale che Jokic reinterpreti a suo modo quei due precursori: mani da pianista che tirano e passano come un esterno, che si sposano appieno con la fisicità di un lungo che sa essere dominante. E ogni qual volta ci si riferisce al talento serbo, si tende ad omettere una voce che il mondo americano non considera di così poca importanza: il salario.
Ebbene, nonostante quello che si possa pensare, Jokic è ancora nel bel mezzo del suo contratto da matricola, arrivando a malapena al milione e mezzo e rappresentando il rapporto qualità/prezzo di maggior incidenza in assoluto, in cui il suo contratto non è nemmeno presente nella lista dei primi 300. Se si considera che questo speciale record finirà comunque al termine di questa stagione, quando le clausole da rookie cesseranno e dovranno arrivare le offerte “vere”, si può ben intendere anche cosa ci sia dietro alla strategia di Denver di liberarsi di tanti contratti in queste sessioni di mercato per poter rifondare o quasi intorno ad un giocatore unico e talentuoso.
Magari non sarà necessariamente bello da vedere e, dato il suo bel carattere, potrebbe anche non finire mai in una contender, perché tende ad essere accentrante nelle scelte di gioco – vedasi il calo repentino di un Faried che è passato dalle finestre dell’All Star Game a quelle di desaparecido – ma Jokic rappresenta la nuova dimensione del basket, con lunghi sempre più tecnici e con orizzonti molto più ampi rispetto al passato. Un’evoluzione della specie e del gioco, in pieno stile slavo, come è giusto che sia. Una profezia che un altro ragazzo – formalmente americano – dal sangue nelle vene misto a Slivovicz, rispondente al nome di Pete Maravich, aveva già fatto a suo tempo.