NBA, Denver Nuggets: corsa all’oro del Colorado

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In un terreno pieno di erbacce e terra secca, il giardiniere seppellisce un seme. Invece di rivenderlo oppure mangiarlo, decide di avere fede, correndo il rischio di perdere il seme o farselo rubare da qualche uccello affamato. Solo così potrà vedere il seme trasformarsi in qualcosa di più grande. Credendo prima in ciò che non era visibile, può adesso godere del suo giardino. Non ci si può basare solamente sulla tecnica: bisogna credere che valga la pena, che anche nelle giornate di tempesta o afose il seme continuerà a fiorire. I Denver Nuggets arrivano alla partita di ieri sera in primetime europeo contro i Celtics in seguito alla più lunga striscia di vittorie, 8 consecutive, dal lontano 2013. Gallinari, Iguodala e Manimal appartengono al passato. Ora è giunto il tempo della nuova vendemmia. E l’uva pare quanto mai succosa.

CAVA VERGINE

Le viti piantate dal general manager Tim Connelly sono di prima qualità. Nonostante le critiche e le diffidenze iniziali, Connelly ha saputo mettere a tacere le discordanze contornandosi di esperti professionisti coadiuvati da giovani in rampa di lancio. Per sostituire la partenza in direzione Raptors di Masai Ujiri, due figure emblematiche della ricostruzione Nuggets sono Arturas Karnisovas, attuale vicepresidente esecutivo dei Bulls, e Micheal Malone. Il primo, grazie alle conoscenze maturate nella carriera da giocatore in Europa, ha intessuto una rete di osservatori in grado di regalare alla franchigia del Colorado una delle pepite più rinomate della miniera del basket balcanico contemporaneo. Mike Malone, dopo la prima disastrosa esperienza da capo allenatore in quel di Sacramento, ha ottenuto il ruolo di head coach in concomitanza con il chiaro dettame societario di ringiovanire la squadra. Il Gallo, alla miglior stagione statistica della carriera, viene frenato dall’ennesimo infortunio. Il segnale è chiaro: mollare gli ormeggi, puntare tutto sui giovani, anche a scapito di vittorie e soddisfazioni nel futuro più immediato. La teoria è ineccepibile. La pazienza e la cura del coltivatore non mancano. Gli acini maturano coccolati.

Nikola Jokic. Jamal Murray. Michael Porter Jr. I tre moschettieri. Non ci si deve sorprendere se i tasselli più importanti degli attuali Nuggets non vengano da scambi con altre franchigie o operazioni particolari in offseason. No. Tutti scelti al Draft. Tutti. E attenzione, non esattamente con le primissime scelte. Solo Karnisovas avrebbe scommesso così tanto su un centro serbo dai polpastrelli rubati al miglior Michelangelo ma dal girovita altrettanto barocco da “sacrificare” una chiamata. Nikola Jokic alla 41, Draft 2014. Rispetto ai vari Simmons, Ingram, Brown e Dragan Bender (!), un canadese con solo un anno di esperienza a Kentucky non offre le stesse garanzie di essere un futuro finisher di primissimo livello. Jamal Murray alla 7, Draft 2016. Un corpo e un atletismo fuori dal comune, condannato da problemi cronici alla schiena a giocare solamente tre partite nell’anno da freshman a Missouri e a trascorrere ai box l’intera prima stagione tra i professionisti, non sono sufficienti a garantirgli una chiamata all’altezza del talento debordante che possiede. Michael Porter Jr alla 14, Draft 2018. Tra le altre chiamate in sede Draft nell’era Connelly, oltre a un altro gregario di lusso dell’attuale rotazione come Monte Morris, figurano Rudy Gobert e Donovan Mitchell. Scambiati nei  minuti immediatamente successivi alla loro selezione, i due guidano gli odierni Jazz ai risultati migliori dallo Stockton to Malone. Ok la fertilità del terreno. Va bene l’attenzione maniacale dei coltivatori. Ma la semente, nella Mile High City, è di primissima qualità.

Fonte: Denver Stiffs

Ammettiamolo: guardare una partita di regular season NBA è iniziativa dallo sforzo sempre più titanico. Soprattutto in questa annata, compressa causa Covid. Al minimo pericolo si preferisce preservare il giocatore, tenendolo fuori dalle rotazioni e risparmiandolo magari per la sfida trasmessa in prima serata sulla tv nazionale. Se la partita si incanala precocemente su binari chiari, piuttosto che cercare rimonte disperate le squadre preferiscono tirare i remi in barca, risparmiare energie in vista dell’impegno più ravvicinato e regalare insperati minuti di garbage time al terzo o quarto quintetto. Il tutto, a scapito dello spettacolo e dell’interesse, convogliati nell’infuocato calderone che saranno i Playoff. Poche sono le partite veramente meritevoli e degne del livello cui il basket americano ci ha ultimamente abituato. Pochissime.

Divertenti, appassionanti, emozionanti. Nella maggior parte di esse, una delle due contendenti sono proprio loro. I Denver Nuggets riescono nell’impresa di tenere incollati allo schermo anche a tarda notte. Sono belli. Sono frizzanti. Sono imprevedibili. L’orchestra offensiva assemblata con lavoro certosino negli anni da coach Malone suona alcune tra le sinfonie più armoniche del panorama americano. I secondi e i terzi violini, creando un ritmo di base solidissimo, garantiscono una salda impalcatura per il suono raffinato degli strumenti principali. Il direttore d’orchestra serbo giostra magistralmente le improvvisazioni solistiche del canadese e le impennate melodiche del nativo di Columbia.

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