In leggero ritardo, come nostro solito. Era nostra intenzione riprenderci un poco dal turbinio di emozioni e spettacolo offerti dal numero 30 in maglia Warriors. Nei nostri occhi, le magie del figlio di Dell rimangono e rimarranno bene impresse nella memoria. In seguito alla striscia di 11 partite consecutive oltre i 30 punti successiva alla peggior scoppola subita da quando calca i parquet NBA, avrete letto e ascoltato di tutto. Ovvio, non menzionarlo né includerlo nella discussione delle candidature al premio di MVP equivarrebbe a bestemmiare in chiesa. Certo, introdurre un paragone tra la stagione regolare attuale e la 2015/2016, quella dell’unanimous MVP, rende l’idea di quanto Steph sia protagonista di un’annata for the ages. Un’altra. Ciò che impressiona di più di uno dei più grandi rivoluzionari del gioco è la sua continua capacità, a 33 anni suonati, di elevare costantemente il livello della propria figura di atleta, sportivo e uomo. Perché mai come in questo caso considerare Wardell Stephen Curry solo in quanto “miglior tiratore della storia” vale sino a un certo punto. Gli occhi all’apparenza innocenti, azzurri come il riflesso della Baia di San Francisco, sono lo specchio di un’anima gigantesca. Stephen, scusaci se non ne siamo mai abbastanza consapevoli.
La narrativa attorno al Curry giocatore si aggiorna continuamente di nuovi capitoli ed episodi dai contorni fiabeschi. Ogni nuovo record di triple, canestri impossibili o percentuali irripetibili occupano le bacheche social degli appassionati di tutto il mondo. Podcast, approfondimenti, opinioni: rimanere aggiornati sulle gesta di Steph notte dopo notte non è mai stato così facile. Quello che viene sottolineato invece meno è la grandezza della dimensione umana di Curry. Raramente, dal marzo scorso a oggi, tanti personaggi legati alla palla a spicchi americana hanno contribuito come il 30 alla presentazione sul palcoscenico globale di una Lega in grado di adattarsi ed evolversi alle nuove dinamiche pandemiche senza tuttavia perdere lo spirito competitivo del Gioco. No, non state sbagliando. Ricordate bene. Golden State non era neanche presente nella Bolla di Orlando. Wardell ha saputo andare oltre l’assenza sui campi da gioco di Disneyworld, reinventandosi in ambiti non scontati per una personalità del suo calibro.

OASI NEL DESERTO
Che l’anima di Curry fosse rivoluzionaria, avremmo dovuto capirlo sin dalla cavalcata del marzo 2008 della Davidson guidata da coach McKillop. Come noi, anche i difensori di Gonzaga, Georgetown e Wisconsin stanno ancora interrogandosi su come alcune catapulte azionate da dietro l’arco abbiano saputo infuocare le retine nonostante braccia alzate, corpi sacrificati e colpi proibiti. Uno piccolo e mingherlino come lui non dovrebbe poter fare queste cose. Nessuno conosce quanto siano grandi il tuo cuore e il tuo potenziale quando inizi un percorso: negli anni trascorsi a Charlotte a recuperare i rimbalzi durante il riscaldamento di papà Dell, chissà che Stephen non abbia ricevuto lezioni private di leadership e coraggio da Muggsy Bogues, giocatore più basso ad aver calcato campi da gioco NBA ma con una passione e una fame per il Gioco inversamente proporzionale ai 160 centimetri di altezza. Quel che è certo è che, in North Carolina come in California, il piccolo Stephen ha saputo trasformare l’atmosfera intorno a sé in qualcosa di rarefatto ma affascinante, etereo e coinvolgente, tanto paradisiaco quanto sensibilmente attrattivo.

Wisconsin vs. Davidson CREDIT: John Biever
Curry non è il manifesto di nessuna rivoluzione. Curry incarna la rivoluzione. Curry è la rivoluzione. Una lotta continua contro leggi della fisica come l’impenetrabilità dei corpi o le formule del moto parabolico. È la rivoluzione perché ha vissuto in prima persona le difficoltà che potrebbero presentarsi davanti agli occhi e alle gambe di chiunque voglia di seguire il suo esempio. E, dando una rapida occhiata ai campetti e alle palestre di tutto il mondo, i discepoli del suo verbo non scarseggiano. Nonostante Monta Ellis, nonostante le caviglie fragilissime, nonostante una meccanica di tiro inadeguata per scardinare l’atletismo di un sistema difensivo NBA. Nonostante le voci insistenti che lo volessero partente in direzione Bucks in ambio di Andrew Bogut. Come ogni profeta, Stephen non conta agli inizi dell’appoggio di molti. Ma la considerazione e la fiducia di quei pochi, col passare degli anni, si riveleranno fondamentali per entrambe le parti.
La fede della dirigenza Warriors consiglia al neo General Manager Bob Myers di sacrificare il beniamino di Oakland per consegnare le chiavi della franchigia a Stephen. L’assunzione di un coach come Mark Jackson è da leggersi come la volontà di plasmare attorno a lui un sistema, ereditato e sublimato in seguito dallo staff di coach Kerr, capace di nascondere le sue lacune fisiche ed esaltarne il genio offensivo. 54 punti al Madison Square Garden il 27 febbraio 2013, i 44 in faccia a Tony Parker e Pop nei primi Playoff della carriera nel maggio successivo. Allori, titoli individuali e di squadra, momenti di estasi pura e contemplazione romantica. Non è dato sapere se, per colpa del doppio gravissimo infortunio occorso allo Splash Brother Klay Thompson, la dinastia Warriors saprà riproporsi per un’ultima volta ai livelli celestiali di qualche stagione fa. Poco importa. Perché Stephen, così come un altro essere semidivino partorito all’Akron General Medical Center, è più di un atleta.