All’età di 33 anni, Nikola Mirotic sta giocando una delle migliori stagioni della sua carriera. Il montenegrino ha senza dubbio raggiunto picchi di rendimento più alti in passato, anche dal punto di vista numeri, ma quest’anno sta mostrando in maglia Armani una leadership che raramente si era vista. Non solo tecnica e tattica, ma anche caratteriale. I risultati dell’Olimpia sono altalenanti, ma se la squadra è riuscita a trovare una propria identità, l’ex Barcellona ha il merito di essere riuscito a calarvisi alla perfezione. In un momento così buono della sua carriera, SKWEEK ha sfruttato l’occasione per intervistarlo sul suo passato, presente e futuro in una lunga e interessante conversazione. Di seguito riportiamo alcuni dei suoi passaggi più interessanti, mentre per vederla per intero potete seguire questo link. (SECONDA PARTE)
Sul suo arrivo a Madrid da ragazzino:
È stato un incubo. È stato molto difficile. Sono stato fortunato perché ho potuto andare con i miei genitori all’inizio. Mio fratello aveva tre anni in più di me, quindi hanno deciso di venire con per aiutarmi. Io non parlavo inglese in quel momento, era la prima volta che uscivo dal mio paese e ero un ragazzo.
A Madrid avevano la loro routine quotidiana. Era folle perché facevamo allenamenti individuali alle 7:30 del mattino e non ero abituato. Facevo allenamento individuale dalle 7:30 alle 8:45. Dopo di che avevo scuola dalle 9:30 alle 17:00. Poi, dopo le 17:00, c’era l’autobus della squadra dalla scuola che ci portava effettivamente all’allenamento della squadra a Madrid. Vivevamo a circa 15-20 minuti da Madrid in autobus. Quindi andavamo a Madrid per l’allenamento della squadra intorno alle 18:30. Avevamo palestra (pesi) dalle 18:30 alle 19:30. E poi dalle 19:30 alle 21:00 avevamo allenamento di basket e poi tornavamo alla residenza. Dalla residenza dovevo tornare al mio appartamento perché vivevo con i miei genitori. Quindi tornavo a casa intorno alle 22:30 di sera. E uscivo di casa anche prima delle 7 del mattino.
Ero esausto. Ero super stanco. Dicevo ai miei genitori: “Torniamo a casa. Seriamente. Non mi importa di Madrid. È troppo per me. Non ce la faccio.” Piangevo. Era troppo, fisicamente e mentalmente. Mi sto emozionando anche ora. È stato probabilmente il momento più difficile della mia carriera nel basket perché ero davvero vicino a mollare e tornare a casa. Sono rimasto probabilmente per la mia fede e i miei genitori che erano lì. Il mio allenatore che mi diceva: “Prova a resistere. Cerca di stare lì per un anno. Puoi farcela.”
Le persone che mi erano sempre accanto mi hanno davvero spinto molto e sono rimasto. A quel punto ho imparato lo spagnolo rapidamente, dopodiché è andata sempre meglio. Penso che quel periodo fosse necessario per farmi capire che questo sarebbe stato un processo difficile.
Una cosa che ho capito subito e che il mio allenatore mi ha detto è stata: “Ascolta, non sei spagnolo. Sei montenegrino. Quando vai lì, se vuoi avere una possibilità, se vuoi giocare, devi essere il doppio più bravo degli spagnoli. Perché ovviamente loro spingeranno gli spagnoli, cosa normale. Quindi devi essere migliore di loro. Devi allenarti il doppio più di loro per avere una possibilità.” E questo mi è rimasto in mente, ho sempre affrontato tutto con questa mentalità.
Sull’esperienza in NBA:
Le cose più difficili in NBA? Velocità, fisicità e trash talk. Odiavo il trash talk. Non sono riuscito ad abituarmici per molto tempo. Prima agli allenamenti e poi anche durante le partite. C’era così tanto trash talk che lo prendevo sul personale. I compagni mi parlavano davvero male e dopo l’allenamento mi stringevano la mano, mi abbracciavano. Io pensavo: ‘Ma che sta succedendo? Abbiamo appena litigato durante l’allenamento e ora mi stringi la mano? Dai, su.’
Quindi dovevo abituarmi a questo e anche ad avere, come dire, poca memoria. Qui in Europa, perdi una partita e ok. Due partite, già è un dramma. Tre partite, c’è una riunione, arriva il presidente, ne parlano i media. In NBA è tipo: perdi una partita, non preoccuparti. Seconda partita, va bene. Terza partita persa: “È una stagione lunga.” Quarta partita: ‘Ok ragazzi, forza, restiamo uniti.’ E può andare avanti così anche per dieci partite. Lì ho capito che loro davvero hanno poca memoria. Pensano solo alla prossima, e lo fanno sul serio, non è solo una frase. Quindi non c’era tutta quella pressione a cui ero abituato.
Mi piaceva il fatto che ci fosse meno pressione? All’inizio no e per tutto il tempo che sono stato lì, no. Ma poi, tornando di nuovo in Europa con tutta quella pressione, ho pensato: ‘Sai, a volte quella poca pressione che hai è una cosa buona.’ Penso che abbiamo bisogno della pressione per performare? Personalmente sì. La pressione che ho avuto fin da giovane penso che sia qualcosa che mi ha davvero spinto e che mi ha fatto capire che dovevo dimostrare. Non agli altri. Dovevo dimostrare qualcosa anche a me stesso ogni giorno, che potevo essere migliore e migliore.
Specialmente nel basket europeo ci sarà sempre quella pressione. Sono stato fortunato a essere sempre nei grandi club: a Madrid, Barcellona e Milano c’è sempre pressione. Penso sia quella che ti tiene sempre in tensione, ti fa capire che devi performare bene. Non ci sono scuse. Mi piace davvero, penso che sia qualcosa di davvero necessario. Senza esagerare ovviamente, bisognare sempre trovare un equilibrio e qualcosa che funzioni per te.