Un video che, tra battiti di un cuore mai domo ed immagini avvinte dalla filigrana, lascia tutti gli spettatori al buio, con lo speaker che, per l’ultima volta chiama il suo nome: Manu Ginobili entra all’AT&T center con la sua famiglia, con una giacca grigia plissettata e un sorriso che non nasconde la gioia e l’emozione. Sul parquet ci sono i 4 trofei di campione che ha vinto, ma soprattutto, tutti coloro che hanno scritto la storia dei San Antonio Spurs. Nessuno vuole o può far mancare la propria voce. Ritirare quel #20, che viene issato al termine della cerimonia, lì sul soffitto, non è solo l’ultimo passo di una carriera, quanto invece è l’ennesima perla di quel ragazzo, nato a Bahia Blanca, che ha saputo far emozionare chiunque lo abbia visto, su un parquet e non solo.
Tutti hanno da dire qualcosa, le voci e gli speaker non mancano e se come presentatore hai Sean Elliott, si capisce che ci saranno lacrime e qualche sorriso. Se l’Ala del tiro impossibile di Portland esordisce definendolo “the greatest player of all time” si capisce che di lacrime e cleenex ce ne sarà un bisogno.
“Manu è diventato un giocatore creativo ed innovativo, uno dei pochi giocatori ad aver vinto il titolo di l’mvp, la medaglia olimpica, nonché il titolo Nba. Manu è stato Leo Messi con una palla da basket, un mago che ha saputo rubare il cuore ed il respiro a tutti i suoi tifosi. Un ragazzo umile che ha iniziato spesso dalla panchina per migliorare se stesso e i suoi compagni di squadra…”
Arriva Tony Parker, meno elegante degli altri, ma con un giubbotto di pelle alla top gun che fa davvero gran figura. Elliott spoilera che l’anno prossima sarà ritirato il suo numero, con una cerimonia non troppo dissimile. Il recordman tra i play di casa Spurs, accolto con la solita ovazione, non fa mancare la sua genuinità:
“Sono felice per te e te lo sei meritato. Agli inizi della nostra carriera sembravano in contrasto: dicevano che io non ti passassi la palla, ma non era vero, Pop ci chiamava gli schemi, non era colpa mia se mi faceva fare il gioco per Timmy, e questo tirava. Ma abbiamo recuperato, e se siamo stati best duo per partite vinte ai playoff qualcosa dovrà contare… La prima volta che ti ho visto giocare avevo 18 anni, quello che ricordo precisamente è quanto tu volessi lavorare e migliorare, giorno dopo giorno: una persona unica. Manu aveva solo due passaggi, quello da leggenda per le grandi giocate e quello che finisce nelle prime file. Nessuno poteva controllarlo, spesso Pop ci chiedeva cosa stessimo facendo e non sapevo cosa rispondergli: se Manu, incontrollabile, era Manu, allora si poteva comunque star tranquilli. Non sarei mai diventato il giocatore che sono senza di te come compagno di squadra, perché l’impegno e la passione che hai dimostrato sono stati di ispirazione. Umiltà e generosità, perché non esistono superstar e leggende che abbiano accettato di partire dalla panchina”…
Quando arriva a parlare Fabricio Oberto si capisce già che il tono sarà piccante:
“L’anno scorso mi ha chiamato alle 10 di mattina, per dirmi del suo ritiro. Un colpo al cuore. Con Manu ho condiviso tutti i miei successi, era sempre lì, anche quando dovevo recuperare dall’infortunio, in sala operatoria, mi ha supportato durante l’anestesia parlando di cose assurde per distrarmi. Questo è l’uomo, la persona che si nasconde dietro il giocatore. La cosa che più mi ha reso felice è stata giocare con lui e far parte della famiglia in cui lui c’era. Mi ha battuto a qualsiasi gioco, dal ping pong al frog con la moneta. Tutti vorremmo ricambiare per ciò che ci hai dato, ma è impossibile”.
E’ il momento di coach Pop, che avrebbe appena vinto la gara – anche complessa – con Cleveland e che, con la cravatta rossa d’ordinanza, apostrofa immediatamente il suo ex playmaker per averlo sbeffeggiato in precedenza:
“Fin dai primi giorni sapevamo di aver trovato un giocatore che potesse darci una mano, ma aveva una caviglia messa male e decidemmo di tenerlo seduto fino a Gennaio. Quando fu sano lo inserimmo e fece la sua parte. Ho avuto l’onore di allenarlo assieme a Ettore Messina che lo aveva già avuto a Bologna, vincendo l’Eurolega. Crediateci o no, quando arrivò avevo i capelli ancora i capelli castani, dopo un anno ero completamente in grigio. Poteva fare qualsiasi cosa, rubare una palla importante, prendere un rimbalzo impossibile o segnare una tripla contestata. Era tutto normale per lui. Era inutile stare a dirgli in cosa migliorare o non mi era piaciuto, se poi era stato lui a farci vincere con una giocata assurda. Senza Manu non avremmo avuto nessun campionato, la sua ferocia, la sua competitività sono fuori dal comune, ma amava il gioco e si prendeva cura di molto più che del suo basket, ma soprattutto di tutti coloro che aveva intorno. Capiva le priorità, era un compagno di squadra, era curioso, parlava di politica, religione, buchi neri e qualsiasi altra cosa. La cosa più importante per la nostra squadra è stata la sua umiltà nell’accettare il ruolo di partire dalla panchina. Mi odiava, non lo capiva, però poi è stata la chiave che lo ha fatto finire nella Hall of Fame”.
Si alza Tim Duncan, con una pettinatura improponibile ma che ha già dispensato dei sorrisi e questo varrebbe il prezzo del biglietto:
“Ogni anno guardavo il draft e ricevetti la chiamata da Pop. Chi diavolo avevamo preso? Pop mi rassicurò che fosse un grande giocatore e che dovevo stare tranquillo. Due anni dopo, allenamento estivo, aveva preso qualsiasi stranezza di Bruce Bowen sul campo, è sempre migliorato anno dopo anno. È stato la persona più divertente con cui sedere in panchina mentre Pop andava e veniva. È stato un genio, uno che vedeva cose prima che potessero accadere e che ha fatto in modo che succedessero”.
Le luci fanno il proprio giro ed eccolo, Manu Ginobili, visibilmente emozionato, prendere il microfono:
“Sono stato fortunato nella mia intera vita, non sapevo che un evento del genere mi sarebbe mai capitato. Avevo avuto una buona carriera in Europa, magari avrei vinto qualcosa con la nazionale, ma essere qui con queste leggende che ammiro e a cui sono legato, è qualcosa che non riesco ancora a realizzare. Sono stato cresciuto da due genitori presenti che hanno permesso a me e ai miei fratelli di seguire la fiamma del basket, di vivere la pallacanestro in maniera vera. Stavo preparando un torneo estivo quando ricevetti la chiamata del draft. Non ci credevo. Ero il numero 57, non certo un top three, ma questo mi ha aiutato per tutta la mia carriera, mi ha fatto cambiare i miei obiettivi. Se sarei stato bravo abbastanza, sarei stato chiamato, perché ero sul radar, quindi ho continuato a fare quello che dovevo e la chiamata arrivò. La vita è come una partita a carte, so di aver giocato le mie al meglio in ogni situazione. Vorrei farvi capire che non sono malinconico, ho scelto di chiudere la mia carriera per stare con la mia famiglia. Venni a San Antonio senza sapere nulla della città, nulla dei giocatori, e poi tutto è cambiato, aver giocato con Tim, con Robinson ed essere su quella parete al loro fianco, è un onore che mi porterò dietro per tutta la vita, di cui sarò sempre grato”.
Resta solo da dire, Gracias Manu!