
La storia ha sempre detto che i Nuggets fossero una squadra perdente e che ronzava sul campo cercando di metterne uno più dell’avversario. Non erano più né i “Larks” (allodole) dalle ali spezzate delle prime gare, mai ufficiali, né i fantomatici “Rockets” che nella ABA non avevano poi fatto granchè. Prima del salto in NBA su era virati sul nome “Nuggets” immaginando, anche graficamente, un classico minatore dell’ovest che scopre una pepita d’oro dalle sembianze di un pallone basket, la battaglia del Generale Custer era già una pagina di memoria storica, la vena aurifera era forse spenta nel tempo e le vittorie tardavano ancora a venire. Di qui a Denver si era scelto di continuare ad attaccare, sempre e comunque, e coach Doug Moe prima e Paul Westhead poi, ben avevano trasformato la squadra in una ballista che sapeva offendere, ma che addirittura, nei commenti piccati off the court, aveva reso la squadra famigerata: gli Enver Nuggets, perché la “D” (di difesa) non era contemplata in Colorado.
Ora da quei tempi non certo scintillanti ne è passato di tempo, sono arrivati delle buone vittorie di Pirro, con Dikembe Mutombo e Abdul-Rauf prima e con Anthony-Iverson poi, ma mai lontanamente si è sentita la possibilità di vincere davvero, con squadre discrete anche distrutte a metà stagione a causa di scelte poco oculate – a posteriori – da parte della dirigenza. Oggi i Nuggets, alla luce di quanto dimostrato, possono dire di tornare a vedere la luce, perché hanno nel tempo addizionato una mentalità nuova, del talento e un coach ambizioso come coach Malone che ha ben chiaro il concetto che le gare si vincono anche dalla difesa. Se poi al tutto aggiungi anche qualche giovane di buona prospettiva che si sta confermando, il gioco è presto fatto.
UNA SQUADRA MULTIDIMENSIONALE
Basta dare uno sguardo alla versatilità del roster per potersi rendere conto che la squadra che è stata capace di sbancare Chicago all’overtime, conquistando la sesta vittoria (su sette gare giocate) di questo avvio di stagione, può essere una realtà. Nikola Jokic, che senza mezze misure è anche un buon percentile del perché della crescita della squadra del Colorado, dovrebbe essere il centro, di fatto è un all around che segna senza essere un mangia-palloni, cattura tante carambole a rimbalzo con la tempra tipica dei serbi, ma delizia anche pubblico e compagni con assist al bacio che aumentano di tanto le chances di andare a bersaglio. Se al suo fianco c’è un giocatore completo come Paul Millsap, vera deep call del draft, che può portare l’esperienza di chi ha fatto parte di progetti non sempre vincenti, allora ben si può capire come il front court dei ragazzi di coach Malone sia ben assortito, con uno dei fratelli Plumlee e Juancho Hernangomez pronti a portare legna quando serve.
Potrebbe bastare questo, ma in realtà l’inizio del capolavoro inizia qui. Le scelte delle dirigenza al draft sono sempre andate controcorrente, sono sempre state però oculate e funzionali al progetto tecnico, con pochi doppioni e tanta creatività. Gary Harris, Malik Beasley, Jamal Murray e finanche Torrey Craig, che dopo anni in Australia ora si sta guadagnando spazio e fiducia in quintetto, sono state tutte chiamate eccellenti e che ora stanno pagando i dividendi. Dato che poi spazio salariale ve n’è in abbondanza, non saranno pezzi da sacrificare nel futuro prossimo. A tutto questo va aggiunta l’incognita alla chiamata di quest’anno, quel Michael Porter jr che, per mezzi tecnici e talento sarebbe stato tranquillamente in top 3, ma che dovrà venir fuori da una serie di problemi alla schiena che ne hanno fatto scemare l’interesse.
A PROTEZIONE DELL’ARCOBALENO
Quello che è cambiato, però, in maniera definitiva, rispetto al passato, recente e remoto, di Denver è la filosofia difensiva che coach Malone ha impresso alla sua squadra. Se il 23° posto dell’anno passato come rating difensivo spingeva gli scettici a considerare i Nuggets come una delle squadre meno organizzate, l’ingresso di un giocatore di sistema come Millsap ha portato quell’equilibrio che è capace di cambiare sui blocchi, dove spesso i missmatch sui piccoli potevano pesare.
Malone non spinge la transizione al massimo come potrebbe essere nelle corde di Murray ed Harris, continua a predicare equilibrio e che tutti e cinque i giocatori tocchino la palla. La sua rotazione appare a tratti geometrica ed è sempre ordinata nell’apportare uno scoglio alla migliore arma avversaria. Le sei vittorie non devono essere né un giubilo né un fattore di calcolo troppo breve per dire che qualcosa sia cambiato in Colorado, ma le prestazioni di questo inizio di stagione dicono che per cento possessi i Nuggets concedono solo 99 punti, con basse percentuali, che tolti Golden State e Boston, sono risultati irraggiungibili per un team che non abbia tre o quattro stelle.
Forse la vena aurifera dell’ovest non è destinata a tornare, il posto nei playoff a Ovest potrebbe arrivare senza che ne derivino successi ulteriore, ma quello che si può affermare, senza ombra di dubbio, è che la tempesta è passata ed ora un placido arcobaleno può tornare a splendere sullo skyline della città del Colorado, così come sulle nuove maglie “City Edition” che sono state presentate qualche giorno fa al pubblico. Non è la felicità, ma ci si sta lavorando, con un piccolo folletto – che risponde al nome di Isaiah Thomas – che sta lavorando giorno e notte, sotto traccia, per poter essere utile a coach Malone, perché la tempesta è appena passata, ma Denver può e sa essere quel posto “somewhere over the raimbow”.