NBA, Cleveland Cavaliers: Para ti, Ricky Rubio

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RICKY RUBIO

29 luglio 2021

Ciao Jeff, dimmi tutto… Spero sia importante, qui a Tokyo sono le quattro del mattino. E i Giochi Olimpici non si onorano da soli. Ah, davvero? Deluso? triste? No, è che semplicemente non me l’aspettavo, pensavo davvero di aver trovato il mio buen retiro tra i ghiacci di Minneapolis. Con quei giovani scalmanati, poi, uno come me è necessario, sia mai che impazziscano di nuovo collettivamente. Vabbè, ormai ci sono abituato, in NBA ti trattano come un pacco di Amazon: non guardano in faccia a nessuno. Spietatamente. Chiudi le valigie, signor Schwantz: ci si trasferisce nella lussureggiante Cleveland. Vamos! “Ricky Rubio: the Spanish Chosen One”… Suona bene, no? Come dici? Certo che mi ricordo che è soprannominata “The Mistake on the Lake”. E allora? Ne ho passate di ogni nella mia vita, cosa vuoi che sia una città priva di vita notturna e qualsivoglia divertimento? Dai, fammi tornare a dormire, che tra tre giorni devo metterne 38 contro i tuoi compatrioti per rendere meno amaro l’ultimo flamenco di Pau e della Generacion. Buonanotte, Jeff. Grazie di tutto…

AL PRINCIPIO FUE EL BALONCESTO

Mierda. Taurean Prince, una seconda scelta al Draft 2022 e spiccioli? Valgo davvero così poco? Così è valutata la mia comprovata professionalità e le mie immense doti di facilitatore per le bocche da fuoco statunitensi, tanto eccitanti quanto altalenanti? Non sono più il giovane sbarbato dei tempi del Barcellona, cui potevi battezzare a cuor leggerissimo ogni rilascio che provenisse da più di quattro metri dal ferro. Non sono più quel giovane play sul quale era concesso passare dietro a ogni singolo blocco al fine di instillare nella sua fragile mente quei dubbi che lo hanno attanagliato per così tanto tempo. Giunto a questo punto della carriera, ho davvero capito cosa è importante per me. E no, non sono i soldi. Anche se 17 milioni l’anno, così schifo, non fanno. Però a Minny ormai sono, o meglio, ero di casa. Si dice che si torna solo dove ci si trova bene, no? Ecco, io avevo fatto esattamente quella scelta. Per tre stagioni ho provato altre esperienze al di fuori del Minnesota senza ottenere i successi di squadra per i quali Utah e Phoenix mi avevano ingaggiato. E quando Jeff mi ha prospettato l’interesse dei T’Wolves per un mio ritorno, beh, non ci ho pensato un attimo ad accettare la proposta. Che poi, a pensarci bene, uno spagnolo di El Masnou, cittadina catalana dove o sei pescatore o ti occupi di vendere il pesce pescato da altri, cosa troverà di così affascinante nelle infinite distese di conifere e nelle temperature glaciali del Minnesota? Spesso me lo sono chiesto anche io, a distanza di anni. E la risposta è sempre quella: la tranquillità. La vita scorre placida, serena, senza gli assilli della grande metropoli, lontana dalla pressione asfissiante e dalle malelingue. Me li ricordo bene gli inizi in Spagna. Non ho neanche avuto il tempo di crescere che ero già grande. Quattordici anni, undici mesi, ventiquattro giorni dopo essere nato, esordisco in ACB con la maglia della Joventut Badalona. Il più giovane di sempre nella storia del campionato spagnolo. (Che ci crediate o no, almeno in questa classifica Luka Doncic non è il primo!) Da quel momento le voci su di me iniziano a rincorrersi. Per sette lunghi, lunghissimi anni tutti non fanno altro che promettermi un futuro oltreoceano. “Però occhio, che se non cresci fisicamente e non costruisci un tiro decente, quelli là ti asfaltano”. Lo sapevo, mannaggia, ma datemi almeno il tempo di maturare! A posteriori non posso che dare ragione a quelle voci ma, quando hai diciotto o diciannove anni, la pazienza non è classicamente uno dei tuoi punti di forza. I miei miglioramenti in campo erano sotto gli occhi di tutti, ma tutto quello che volevo fare era fuggire da quel contesto. Ci si aspettava troppo. E subito. Per una questione legale, devo aspettare due anni in più di quelli che avrei dovuto per varcare l’Atlantico e, dopo un glorioso biennio al Barça, Minnesota decide di far valere i propri diritti sul mio cartellino, acquisiti con la quinta scelta al Draft 2009. È l’estate del 2011. Finalmente si parte.

Rubio
Credits: FIBA

Tranquillità, dicevamo? I primi anni nella Lega sono il perfetto esempio di cosa andavo cercando da quando avevo finito le scuole medie. Tra il 2011 e il 2015 disputo circa la metà delle partite di stagione regolare con la maglia dei Lupi a causa di diversi infortuni. Se mai dovesse capitare anche a voi, non dimenticate mai che l’impatto fisico con l’NBA è una delle cose più devastanti per la carriera di un cestista europeo. In America, semplicemente, sono più alti, più grossi, più veloci. Magari i neuroni viaggiano a corrente alternata. Altre volte qualcuno si dimentica quasi quanto Madre Natura gli ha messo al posto delle fibre muscolari, gettando via il talento e la carrozzeria a disposizione per mancata concentrazione o un’attitudine quantomeno ballerina. Però, madre mia, quei ritmi sono insostenibili. Giocare al massimo ogni due giorni, con voli notturni e pisolini in hotel di lusso, per un fisico non abituato sono deleteri. Non lo nego, ho vissuto momenti estremamente difficili. I miei genitori e la mia famiglia non mi hanno seguito qui in America, hanno preferito rimanere in Europa. Da lontano cercavo di far capire loro quanto fosse importante il loro sostegno, ma entrambi sapevamo che la distanza non poteva colmare totalmente i bisogni dell’altro. Soprattutto da quando, nell’estate del 2012, a mamma era stato diagnosticato un cancro. Saperla sofferente a casa mi faceva sentire sollevato da un lato, ma tremendamente impotente dall’altro. Cosa potevo fare a migliaia di chilometri di distanza? Una semplice telefonata o una videochiamata? Come potevano essere realmente utili? Nel 2014, poi, altro fulmine a ciel sereno. Flip Saunders, figura storica come giocatore e dirigente di Minnesota, ci lascia a causa del linfoma di Hodgkin. La notizia ha scosso l’intero stato, ma penso che pochi abbiano saputo empatizzare con Ryan e il resto della famiglia Saunders come me. Allora prendo di getto una decisione: torno a casa. Diciassette ore di volo. Solo per rivedere gli occhi di mia madre. Papà è un po’ di tempo che mi dice che le condizioni stanno peggiorando. Non sopporterei il fatto di salutarla per l’ultima volta attraverso lo schermo di un telefonino. Poche settimane dopo la mia toccata e fuga, mamma muore.

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