NBA: date a CP3 quel che è di CP3

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New Orleans, all’epoca ancora Hornets, annata 2008: record di vittorie nella storia della franchigia a quota 56. I cugini sfigati e snobbati della City of Angels, gli LA Clippers, portati a 57 vinte nella stagione regolare 2013-2014. Gli Houston Rockets da 65 wins del 2018, uno dei più grandi rimpianti della carriera di D’Antoni, fermo a quel maledetto 3/27 da tre punti nella decisiva gara-7 contro Golden State. Per ultimi gli attuali Phoenix Suns che, nonostante l’inopinata caduta della recente notte contro i Clippers del rientrante Norman Powell, hanno raggiunto le 63 vittorie a due gare dal termine della stagione. Cos’hanno in comune queste quattro squadre, lontane negli anni e nei concetti di gioco? Un unico fattore. La cui presenza, tuttavia, migliora esponenzialmente il risultato finale. CP3.

NEW ORLEANS HORNETS 2007-8

Un basket ordinato, fluido, capace di divertire gli abitanti della storica capitale del blues. La presenza sotto canestro di Tyson Chandler, la doppia dimensione di un giovane David West, le prime capigliature eccentriche di “Birdman” Andersen. La duttilità di Butler e Bowen sul perimetro, abbinati alla mortifera balistica dalla lunga distanza di Peja Stojakovic. Per i più giovani sarà difficile tornare lucidamente alla mente all’NBA di quindici anni fa, dominata dai Big Three and Rondo del Massachusetts. L’ultimo anno dei Seattle Supersonics sulla mappa cestistica americana, mancanza che inizia a percepirsi tangibile soprattutto se sobillata da versioni di Sacramento quantomeno rivedibili. Nonostante la presenza media a palazzo sia la quint’ultima della Lega, la squadra di Byron Scott chiude l’annata col quinto miglior record delle due Conference. Si sa, New Orleans è città del football. Non è facile generare clamore mediatico in quel mercato: per informazioni, citofonare Anthony Davis e Zion Williamson. Eppure, tutta la città rimarrà legata a quegli anni dei calabroni in tinta arancio e turchese, eclettica e trasformista come l’anima della città sul Mississippi. Las Vegas, a inizio stagione, ha posto l’Over-Under a 37.5. il quinto Defensive Rating e il settimo Offensive Rating parlando di una contender a tutti gli effetti. Una macchina ben oliata che, nonostante ritmi tutt’altro che sfrenati (89.9 di pace è un dato bassissimo anche per il 2008), viaggia per tutta la stagione regolare senza la necessità di doversi fermare dal benzinaio o dal meccanico per rifornimenti o riparazioni alcune. L’inesperienza dei suoi uomini cardine, tuttavia, è uno scoglio troppo grande da superare ai playoff: il talento è sufficiente a superare i Mavs al primo turno, ma l’estenuante serie in sette partite contro San Antonio vede uscire vincitrice la squadra di Pop.

LOS ANGELES CLIPPERS 2013-14

Le prospettive dei Clippers ai nastri di partenza della regular season 2013-2014 sono le più rosee della storia della franchigia californiana. Mai i rossoblù di LA hanno visto così tanto talento condensato in un unico roster. Gli ultimi canti dei cigni Turkoglu, Granger, Stephen Jackson e Antawn Jamison. Una panchina profonda e ignorante il giusto, che annovera tra gli altri Matt Barnes, Darren Collison, Jared Dudley e Glen “Big Baby” Davis. Jamal Crawford, o colui al quale dovrebbe venir intitolato il premio di Sixth Man of the Year una volta comunicato ufficialmente il ritiro poco tempo fa, alla soglia dei 42 anni. Un cecchino in uscita dai blocchi in JJ Redick. Atletismo debordante sotto le plance, col miglior realizzatore del mondo se si considerassero solo i 20 centimetri attorno al ferro (DeAndre Jordan) e un produttore seriale di highlights e poster in grado di entusiasmare anche i più anemici e apatici fans NBA (Blake Griffin). È Lob City al suo massimo splendore, signori. Giostrati da Doc Rivers dalla panchina, i losangelini rispettano i pronostici di inizio stagione, vincendo la Pacific Division. Forti del miglior attacco della Lega (112.1 OffRtg), i Clippers riescono ad avere la meglio di un’edizione ancora acerba e immatura dei Golden State Warriors al primo turno, prima di sbattere rumorosamente contro i Thunder di KD, Harden e Westbrook nelle semifinali di Conference. Una pallacanestro high risks high rewards, estremamente spettacolare ma basata su principi troppo estremi per superare le forche caudine degli aggiustamenti tipici di una serie di sette partite. Ma forse è meglio così: gli alley oop, le triple frenetiche e una difesa ballerina non sono nati per vincere, ma per entrare nel cuore di chi assiste allo spettacolo. Lob City: quando un’emozione val bene una sconfitta.

HOUSTON ROCKETS 2017-18

Miglior record dell’Ovest. Due turni superati agevolmente, entrambi per 4-1, contro i giovani T’Wolves e degli estremi Utah Jazz. L’epilogo che tutti ci ricordiamo. Le recenti voci di una ricostituzione della triade D’Antoni-Morey-Harden in quel di Philadelphia possono regalare all’ex playmaker di Milano un’ultima grande occasione di raggiungere quell’anello che, prima a Phoenix e poi a Houston, è arrivato solamente vicino a conquistare. Mai raggiunte le Finals, ma le campagne in postseason nella Western Conference hanno mostrato entrambe le facce delle medaglie del basket predicato dal Baffo. Estremizzare, estremizzare, estremizzare. Non concedere alcun compromesso, che si corresse all’impazzata o che ci si dedicasse a isolamenti tanto “brutti” quanto tremendamente efficaci. La presenza del Barba in quei Rockets ha fatto pendere l’ago della bilancia per la seconda opzione: un ritmo di gioco e una difesa nella media, ma i migliori dati offensivi delle trenta franchigie in gioco. L’evoluzione continua del basket a stelle e strisce è visibile alla semplice lettura dei componenti del roster. La combinazione di polpastrelli educatissimi e lentezza di piedi di Ryan Anderson è un archetipo oggi assai diffuso in NBA, grazie anche alla collocazione tattica modellatagli da D’Antoni: la presenza difensiva al suo fianco di un protettore del ferro come Clint Capela, dai compiti offensivi limitatissimi, regala spaziature impensabili per l’attacco texano. La depth chart riporta alla memoria una serie di esempi dizionaristici da applicare alla voce “3&D”: Gerald Green, Eric Gordon, PJ Tucker, Luc Mbah a Moute, Trevor Ariza. Sembra un laboratorio per il basket di oggi, cinque anni or sono. Un esperimento riuscito quasi completamente, infrantosi per una serie di sfortunati eventi. Ma se oggi esistono alcuni giocatori hanno cittadinanza in NBA, parte dei loro onerosissimi contratti dovrebbe essere devoluta nelle tasche di quel front office e di quello staff tecnico. James Harden, Mike D’Antoni e Daryl Morey: antesignani incompresi.

PHOENIX SUNS 2021-22

Di questi Phoenix Suns si è parlato anche troppo. O forse no? Sulla sottovalutazione mediatica dell’apporto dei vari Booker, Ayton, Bridges e compagnia cantante si sono spesi fiumi d’inchiostro. Sulla considerazione discutibilmente riservata a un grandissimo essere umano prima ancora che coach come Monty Williams si è detto moltissimo. La franchigia dell’Arizona pare aver miscelato alla perfezione le migliori caratteristiche di tutte le squadre precedentemente citate. L’equilibrio degli Hornets, la ricerca del miglior spot per la tripla dei Clippers, lo star power dei Rockets. Allo stesso tempo, le deficienze degli stessi roster non paiono esserci nello scacchiere dei Suns. Se New Orleans pecca di inesperienza, il core dei Suns ha alle spalle un’intera cavalcata playoff, conclusasi solo difronte alla strapotenza semidivina di Giannis. Se LA Clippers dovevano sperare in una serata particolarmente sfortunata al tiro degli avversari, Phoenix ha solide basi difensive che le garantiscono di adattarsi alle difficoltà di ogni singolo rivale. Se Houston vinceva esclusivamente segnando un punto in più sul tabellone, Phoenix può ottenere lo stesso risultato costringendo a farne uno in meno.

Quale elemento comune tra queste formazioni? Un floor general illuminato da talento e intelligenza cestistica fuori dal comune, capace di mutare la propria pelle a seconda dei compagni al suo fianco. Un direttore d’orchestra che accorda violini e violoncelli sin dal primo arrivo in spogliatoio, permeando lo spirito di squadra in modo da renderlo vincente anche una volta lasciata la bacchetta nelle mani di qualcun altro. Un playmaker la cui carriera meriterebbe un suggello dorato chiamato Larry O’Brien Trophy. Perché i riconoscimenti e le medaglie valgono quel che valgono, ma in questo caso varrebbero molto di più. Senza questi, probabilmente negli anni si dimenticherebbe la sua grandezza, confinata nella categoria “perdenti di successo”. Christopher Emmanuel Paul. CP3. Point God. Chiamatelo come volete. Dove c’è lui, si vince. È ora che vinca anche lui. Ma che vinca per davvero.

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