Qualcuno ha detto che il basket è il più darwinesco degli sport: quando meno te lo aspetti trova un modo per salvarsi dalla propria estinzione tecnica.
Quel modo nel 2020 potrebbe chiamarsi: Zion Williamson.
Ebbene sì, un rookie. E uno che ha saltato le prime 44 partite della sua prima stagione al Piano di Sopra per intervento artroscopico al ginocchio.
Eppure, in sole 17 gare tra i pro, il diciannovenne con il fisico da linebacker e l’elevazione da gara delle schiacciate non solo sta salvando la stagione dei Pelicans – incistata da un’imbarazzante striscia di 13 sconfitte consecutive dopo l’addio di UniBro – ma pare anche in traiettoria tecnico-tattica per allunare, con un paio di Nike Jordan ai piedi, nel post basso, piantando la bandierina del gioco laddove non si riscontrava attività cestistica da troppo tempo.
Il basket si è evoluto, ci hanno detto, e quella che per due generazioni è stata la priorità offensiva di ogni squadra NBA ha perso i propri fondamenti; far arrivare la palla nel post basso per due facili ad alta percentuale non è più il mantra attorno a cui è predicata un’intera stagione, la stazza – quella che da Chamberlain a Shaq costituiva il sacro graal del gioco, il segreto non insegnabile che andava ricercato in giro per il mondo – ha perso la sua rilevanza statistica a favore della nuova religione incentrata sulle spaziature, complici, sia detto, le nuove regole difensive che chiudono un occhio sulle invasioni di mattonelle del campo un tempo considerate terreno proibito.
I lunghi tradizionali si sono trovati davanti a un bivio: o espandevano il proprio arco di tiro o facevano la stessa fine dei dinosauri; altri hanno accettato il ruolo da specialisti del pick-and-roll.
Zion Williamson ha ri-cambiato il gioco?
Zion in sole 17 partite ha mostrato al mondo un nuovo modo di giocare in post up, uno che non ha bisogno di prendere posizione sotto a canestro in attesa del passaggio da fuori, ma che si autogenera in campo aperto.
Zion è un tale freak del gioco che può contestare una tripla nella propria metà di campo, galoppare come un bisonte fin sotto al canestro avversario, prendere possesso del verniciato, il tutto mentre i suoi compagni in transizione sono ancora in corsa verso la meta. Il suo basket non è incentrato sulla stazza o sulla forza soltanto, ma su una velocità plastica da guardia infilata dentro a un proiettile da 130 chili.
Quando Williamson era ancora a Spartanburg, in Sud Carolina, il suo allenatore di basket alla Spartanburg Christian Academy, coach Chris Arp, era anche insegnante di fisica del liceo. Uno dei suoi allievi gli domandò quale potesse essere la forza d’impatto generata da Williamson in campo aperto. La domanda finì sul Wall Street Journal, in città per scrivere un articolo sul nuovo bimbo prodigio del basket dopo LeBron James.
Ci vollero solo 48 ore prima che le principali università americane inviassero la soluzione alla redazione del giornale con tanto di grafici e conteggi accurati:
La massima forza d’impatto che si può generare quando Zion corre in campo aperto è pari a quella di una jeep che ti travolge andando a 10 miglia all’ora.
Zion pochi mesi dopo finì a Duke, e caso vuole che non gli fu fischiato un singolo sfondamento in un’intera stagione.
Parte dell’evoluzione perimetrale del gioco era stata innescata dalla prevedibilità degli attacchi in post basso. Le difese avversarie affollavano l’area piccola di lunghi e ricevere palla sotto canestro era una complicazione.
Da questo gennaio, quando le spalle di Zion vedono il canestro, spesso è lui il primo uomo sulla luna, e le guardie avversarie che tengono il passo sono come moscerini sul corno di un rinoceronte. Alcune restano a guardare, le altre hanno ancora negli occhi il recente duello contro Sir Giannis Antetokounmpo, quando Williamson, materializzatosi dal nulla sotto canestro, ha rubato gli spicchi carambolati contro il ferro dalle mani del Greco già in volo da mezzora.
Sono queste le giocate che Zion preferisce, quelle che lo hanno fatto propendere per Duke quando le altre università lo corteggiavano da mesi.
Tutti mi parlavano delle mie schiacciate su instagram, del fatto che avrei potuto farne 70 a partita se avessi scelto il loro programma; coach K mi chiamò e mi disse che del mio gioco amava il mio intuito nei passaggi e le mie giocate difensive. Pensai: ragazzi, chi è che vince a basket con 70 schiacciate? Non è neppure basket, è instagram.
Il resto è storia. Una che si è srotolata ai piedi di Zion come un tappeto rosso di chi è destinato alla grandezza.
Non è Shaq o Wilt
Zion non è un Baby Shaq o un Baby Chamberlain, benché stia tenendo una media attorno al 60% dal campo che ci ricorda molto il Bigliettone; Zion a 12 anni era un metro e 78 centimetri scarsi, gli allenatori lo allenavano da due anni come se fosse stato prescelto a cambiare il gioco dall’arco, non dal post basso. A fine estate se lo ritrovarono in palestra attorno al metro e 95 e 95 chili di materiale esplosivo.
Chiunque lo aveva sotto mano gli insegnava una sfaccettatura diversa del gioco: sua madre, allenatrice di basket a livello liceale, puntava la sveglia alle cinque di mattina per allenare la stamina e l’elevazione del figlio prima di spedirlo in classe, e quando Zee aveva finito con i drills e la corsa, gli toccava memorizzare le movenze di Jordan davanti al televisore; il patrigno, ex giocatore NCAA, al rientro da scuola gli spiegava i fondamentali sotto canestro e in difesa.
Coach K, al primo giorno di allenamento, chiese al suo staff di misurare la verticalità del ragazzo, e Zion polverizzò con un singolo balzo i numeri di chiunque a quintetto; gli fecero ripetere il test con dei pesi alle caviglie e fece ancora meglio di prima. Il problema, dopo l’infortunio in preseason, è paradossalmente invertire la curva ascendente del suo talento; e, a detta di Zion, è stata anche la parte più noiosa.
Mesi e mesi in cui 20 persone mi studiavano come se fossi una cavia. Zion devi atterrare con meno forza, Zion devi imprimere meno spinta quando stacchi per volare a canestro, Zion devi mettere meno intensità in questa virata o sforzare meno le anche quando non sei in equilibrio…
Per un ragazzo innamorato perso del gioco è peggio di dover correre a cercare il preservativo proprio sul più bello.
Intanto, per la prima volta nella storia del gioco, un giocatore costretto a saltare la prima parte della stagione per infortunio potrebbe portarsi a casa il titolo di Rookie dell’Anno: i numeri ci sono, sia individuali che di squadra, i record siglati pure, e perfino il terrore negli occhi degli avversari.
Gli allenatori NBA, mentre vi scriviamo, sono impegnati a disegnare nuove strategie difensive solo per il virgulto e pronti ad aggiustarle in corso di gara; i Pelicans, credeteci o meno, sono ancora in lotta per l’ottavo posto a ovest e il modo in cui James ha gestito il duello ravvicinato di martedì scorso è stato un chiaro invito ai suoi a non sottovalutare un eventuale primo turno ai playoff contro New Orleans. Tripla doppia da 34, 12 rimbalzi e 13 assist – più vittoria – per lui; 35 col 75% dal campo sul tabellino chamberlainesco di Zion, senza mai forzare da tre, nonostante il ragazzo vanti un 4 su 4 da dietro l’arco nella sua partita d’esordio, e senza nessuna di quelle schiacciate nonchalanti che Williamson rifilava da Dukie per far esplodere il tifo di casa.
Attorno ai 14 anni sapevo già fare tutte le schiacciate di Vince Carter, ma non ho intenzione di scompigliare i piani a coach Gentry. Nell’NBA la cosa più importante è capire qual è il tuo ruolo, e il mio è quello di vincere ogni partita, non di finire sugli highlight serali.
E la Nike?
L’ultima volta che Zion voleva impressionare il Primo Cittadino Americano, si è ritrovato con il culo per terra a un metro dal Presidente Obama e con un paio di Nike a cui si era polverizzata la suola dopo l’impatto sismico del suo stacco sul parquet. Quel Zion aveva riso allora, scuotendo la testa sotto la cascata di foto scattate da migliaia di cellulari; oggi il Numero Uno dei Pelicans sa che il loro primo viaggio ai playoff passa per la sua efficienza offensiva, i suoi scarichi precisi quando raddoppiato, la sua velocità nel bruciare i difensori sul campo, la sua ferocia a rimbalzo per lasciare subito palla al backcourt in modo da raggiungere la posizione in attacco il più in fretta possibile senza incappare nei pasticci di un ball-handling che va ancora perfezionato. Williamson dominante in ala forte consente a Brandon Ingram di giocare nella sua posizione naturale di ala piccola, consente a un Lonzo Ball aperto al tiro di convertire triple attorno al 40%. Perfino il tiratore scelto e superveterano JJ Reddick ha visto la sua efficienza da lontano incrementare di un ulteriore 10%.
Il primo giorno che sono arrivato in spogliatoio, JJ mi ha guardato dritto negli occhi e mi ha ricordato che sono 13 stagioni su 13 che non salta i playoff. Vedi di non sputtanarmi il record, mi ha detto. E poi mi ha spiegato che il mio compito da rookie quest’anno sarebbe stato quello di far trovare filetti di pollo pronti per tutti in aereo durante ogni trasferta. Per ora ho mancato il compito solo una volta, quei dannati filetti erano introvabili a Portland.
Zion, da quando veste la maglia dei Pelicans, sta avendo l’impatto del primo Tim Duncan sugli Spurs, un rookie-savant che non dovrebbe poter essere così dinamico con 130 chili non definiti addosso, che sfida le leggi di gravità, fisica e biodinamica ogni volta che scorrazza in campo aperto nel secondo attacco più giovane e rapido dell’NBA, che cambia le partite in soli 30 minuti sul campo perché non è ancora sano a sufficienza per reggerne dieci in più e che, nonostante i riflettori del mondo e le attenzioni di ogni avversario puntate addosso, si muove già da uomo in mezzo ai bambini, perché quello ha imparato a fare dai suoi 13 anni, quando affrontava gente quattro o cinque anni più grande di lui con la maturità di un 32enne. Il tutto riportando in vita un basket in low post che aveva solo bisogno di un suo nuovo interprete stiloso.
In America si dice: “Sky’s the limit”, a New Orleans l’unico limite è un paio di suole sotto a un paio di Nike.