NBA: la storia di Damian Lillard è molto più dello “zero”

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Quando si parla di Damian Lillard, bisogna sempre essere cauti e prudenti, perchè le giuste parole e le giuste azioni sono solo il corollario della sua carriera. Orgoglio, ostinazione e per certi versi onirico nel suo gioco, Lillard è uno di quei giocatori che dosa potenza e controllo con abile maestria: la squadra sa che seguendolo può superare i propri limiti, il resto poco conta. Riassume per noi Paul George, giocatore con cui c’era del pregresso:

” I suoi tiri dal logo pensavo fossero avventati, lo pensavo veramente… La verità è che sono pensati, ragionati, studiati, una capacità immarcabile di metterli, ogni maledettissima volta… Chiedo scusa per ciò che avevo pensato prima di lui”

E se la risposta di Lillard era stata un no comment dopo il tiro di gara 5 che aveva mandato OKC a casa, figurarsi se ha degnato di tenzone tale affermazione. Altri pensieri, altri giri, altri tiri e altre storie…

IL NUMERO 1, LE HEADBANDS, IL PIC-NIC

Vederlo essere il simbolo di Portland, la dichiarazione di voler restare un Trail-Blazers a vita, di voler vincere un titolo, sono solo il punto di arrivo. Ciò che ha generato il Damian Lillard che vediamo oggi sul parquet è un incrocio di cavalleria e arte mercantile che ne fanno una mente lucida, razionale e dinamica, ma al tempo stesso implacabile, come i suoi tiri e la sua leadership. Ha più volte rimarcato la “O” e non lo zero sul retro della sua maglia, e la sua vita parla esattamente in tal senso. Eppure anche se conoscete la storia, c’è sempre un motivo dietro ogni suo gesto.

Del ragazzino che inforcava la bici e correva fino al campetto (e poi alla palestra) di Brookfield, quartiere assai degradato di Oakland dove il tasso di criminalità è del 191% superiore alla media nazionale, rimane la sua baldanza sul campo. Quello sguardo di sfida con cui lui, spalleggiato da suo fratello, arrivava al campo a sei anni e iniziava a giocare con adulti, non necessariamente vincendo, senza mai smettere, fino a che l’oscurità non gli faceva più distinguere il pallone e il canestro. Eccolo il Lillard che ama prendere le sfide di petto, il pallone decisivo nelle sue mani, che non lesina le responsabilità e che guarda dritto in faccia l’avversario. E per rimanere in tema, quei baseball/football pass che gli vediamo fare a tutto campo sono tanto eredità di Houston jr, suo fratello. Che sarebbe andato a fare il QB in un college di media Division I e lo aveva spronato più volte a impegnarsi nello studio.

Da Oakland a Ogden, terra mormone dello Utah, la distanza è siderale, ma il passo è breve. Anche qui è questione di rispetto, perchè Weber State era stata la prima a inviargli una scolarship, e chi era arrivato dopo avrebbe dovuto aspettare fino all’ultimo. La verità è che coach Randy Rahe lo aveva visto poco. Gliene avevano parlato benissimo alcuni suoi amici californiani. Ma Damian Lillard nelle varie HS che aveva girato, il campo lo vedeva pochissimo (!), fino a che un certo coach Young gli aveva detto qualcosa del tipo: “Per me non giocherai, fino a che non avrai migliorato le tue skill, il tuo allenamento e le tue capacità“. Sarebbe stato bello essere lì, ma queste parole lo avevano spronato, eppure Lillard si era presentato a Ogden a vedere il campus in ritardo, felpa e headband ben in vista. E prima di conoscere coach Rahe era scappato a fare una sessione di tiro sul campo che sarebbe stato il suo per i successivi anni. Da un’università mormone ci si aspetta sempre qualche stranezza e puntualmente Weber State gli dice che non giocherà se non decide di togliere la headband, che non ha armocromia con i colori e lo stile della squadra. Lui dopo più di qualche tentennamento decide di assecondare questa richiesta, mentre l’assistente di coach Rahe immaginava già la perdita di un giocatore talentuoso solo per quella maledetta fascia.

Oakland, Ogden e l’Oregon… Con una laurea in economia e vendite in tasca, numeri eccezionali e bella considerazione al draft, arriva a Portland, dove ci si aspetta molto da lui. Più di 20 punti e 10 assist all’esordio, sempre a testa alta, mostrando talento e integrandosi appieno in una squadra giovane e di grande caratura, la sua stagione da rookie è qualcosa di eccezionale. Eppure il suo primo pensiero alla fine dell’anno era di rinverdire la tradizione che era stata interrotta quando lui aveva 12 anni, ossia il celebre Never Worry Picnic di Brookfield. La sua appartenenza e il suo legame con ciò che gli è caro è il suo punto di forza. Vuole un titolo con Portland, così come un futuro migliore per tutti quelli che gli sono vicini. Gli hanno chiesto a chi si ispira, o chi stima degli altri suoi colleghi. Ci si aspettava la risposta scontata, invece in quel “Dirk” si cela la sua grandezza. Non conta ciò che fai se non lo fai per ciò in cui credi.

LA PORTLAND CHE NON E’ STATA

Senza essere tacciati di blasfemia, Lillard è stato sicuramente la reinterpretazione di Brandon Roy, per la sua estaticità sul parquet e per il suo talento di sgusciare fuori dalle situazioni con talento e perseveranza. Eppure Portland non ha mai superato gli scogli più ardui dei playoff, e molti dei destini vanno a scontrarsi con le logiche della NBA in cui una squadra con Lillard, McCollum e Aldridge non è più pensabile neanche se li scegli tutti e tre al draft, così come è avvenuto. Il pensiero su quello che l’asse Lil/Ald avrebbe potuto mettere insieme è intrigante, ma la possibilità di costruire non c’è stata visto che nel momento di maturazione di Damian, LaMarcus ha fatto fagotto in direzione Texas, da cui proprio ieri è stato ufficialmente scaricato. Più volte, punzecchiato dalla stampa, Lillard ha ripensato al passato, ma con la stessa sfacciataggine per cui è anche un rapper famoso (D.O.L.L.A.) le sue risposte sono state piccate e non hanno accolto la provocazione.

Il voler vincere questo titolo in quel di Portland è il motivo per cui in Lillard si può credere. La squadra è ora un mix di vecchie glorie e giocatori in rampa a cui va chiesto il salto di qualità, ma solo se McCollum e Nurkic torneranno a regime dagli infortuni si potrebbe realizzare. La mentalità del giocatore che oramai è diventato “Logo Shot” è quella di non vincere da solo, ma di farla guidando un gruppo di cui si possa fidare. Un’altra caratteristica che ha nel DNA e che permea la sua vita, ossia la fede, rappresentata dal Salmo 37 di Re Davide che ha tatuato sulla pelle. Uno stile di vita che va oltre il basket e che lo rende uno dei più affascinanti protagonisti del panorama NBA.

 

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