La stagione era quella del 1996-1997, gli Spurs erano una della migliori squadre dell’era del primo rientro di MJ, venivano da due annate ben oltre i 60 successi stagionali e con David Robinson al top della propria carriera avevano ambizioni di tutto rispetto nella polveriera dell’Ovest. Quando però, senza l’ammiraglio in campo, si parte con un “patetico” 2-15, ecco il sorgere di quella caccia alle streghe nello stato della grande stella, che non è certo famoso per la sua giustizia imparziale. Bob Hill era il colpevole designato, nonostante una settimana prima la dirigenza nella stanza dei bottoni, avesse predicato “calma e gesso”. Già, la stanza dei bottoni. Gregg Popovich in una settimana divenne l’head coach degli Spurs, tra la sorpresa dei giocatori, che fino ad allora con lui avevano discusso sempre in maniera franca, come si fa con un general manager, abituato a gestire contratti e a guardare lontano. Quell’anno ci saranno solo altre sedici vittorie, magro bottino, ma arriverà la chiamata numero uno dalla lottery, con la scelta di Tim Duncan e l’inizio di una delle franchigie più vincenti della storia recente del basket americano.
Non si parte dal nulla, in Texas lo sanno, ma non aver avuto “bassi” in quest’ultimo ventennio ha creato una sorta di aurea d’invincibilità intorno a San Antonio. Si parlava sempre di quello spirito di resistenza alle avversità che sembrava albergare sulle lastre dell’AT&T Center, un po’ come all’Alamo, ma la verità è che si è saputo diversificare un sistema che permettesse di ottimizzare il talento. Popovich ha preso la sua truppa e, da buon militare di cultura ha saputo plasmarla adeguandosi anche a quello che servisse per vincere, sfruttando prima le twin towers e poi un gioco di spaziature, tempi e ritmi che oggi vediamo eseguito in maniera a dir poco impeccabile da parte dei ragazzi della Baia di San Francisco, anche se quel piede di Pachulia in gara 1 dello scorso anno grida ancora vendetta.
L’EFFETTO DOMINO KAWHI E IL MERCATO
L’infortunio di Leonard, nodo gordiano della vicenda, è stato lo spartiacque di una stagione che vede ancora San Antonio in top 3 a Ovest, ma con un trend decisamente negativo, una classifica corta e il rischio non troppo velato di poter essere estromessi dalla post season. Non è possibile credere ad una debacle simile, eppure i fatti dicono che la squadra è in totale disfacimento, senza punti di forza su cui investire nel futuro, come hanno dimostrato le due recenti sfide contro i Nuggets, dominate da Jokic.
Popovich, prima della sfida di sabato, aveva detto di voler stravolgere il proprio quintetto, cosa che puntualmente si è verificata, seppur in forma attenuata. Quello che non puoi cambiare è una stanza dell’infermeria sempre affollata, non solo da degenti. Le nubi sul futuro di Kawhi Leonard in neroargento si erano già levate a dicembre, quando si era parlato di tensioni interne, poi smentite da un ambiente comunque ostico a far trapelare alcunché. Quando nella passata settimana si è invece scritto di una “divergenza di opinioni” tra i medici di casa Spurs, che sembravano aver dato l’ok al #2 e lo stesso giocatore che ancora non vuole rischiare, si è capito che un tizzone incandescente cova sotto la cenere.
Quest’anno inoltre gli Spurs hanno sbagliato tutto in fase di mercato, con i rinnovi o gli arrivi di giocatori che non possono più garantire il contributo da superstar come Gasol e Gay su tutti. Lascia dubbi la scelta di puntare su Bertans, onesto mestierante ma comprimario, Lauvergne e Anderson come giocatori di rotazione, nonché aspettarsi tanto da Murray, Mills, Forbes e dal ritorno di Parker da un infortunio che ha cambiato e non poco gli equilibri. Manu Ginobili è in controtendenza rispetto agli altri vegliardi all’ombra dell’Alamo e sta giocando davvero una grande stagione, rischiando di vincere a 40 anni il premio di sesto uomo dell’anno. Lo stesso LaMarcus Aldridge, che è stato proposto a 29 franchigie per scambi, pur reinventatosi a dovere nel ruolo di primo violino causa forfait di Leonard, non appare il traino giusto per una squadra dalle ambizioni come quelle degli Spurs.
FINE DEL CICLO PIÚ LUNGO CHE L’NBA RICORDI?
La chiave che potrebbe sancire la fine di un periodo epico è l’impatto difensivo, un marchio di fabbrica per le squadre di Popovich, specie in anni di vacche magre. Una squadra over 35 come questa soffre molto la fisicità ed esplosività degli avversari nei finali di partita, vero tallone d’Achille dei neroargento, perchè se in passato era la coesione di squadra a fare colmare questo gap, ora non succede più. Con l’assenza di Kawhi sembra mancare la scintilla emotiva che, pur con la sua inespressività, era capace di dare e non vederlo con la sua solita giacca spesso a quadratini al fianco di Popovich deve far riflettere. Per una squadra abituata ad evitare i “downs” con il lavoro di gestione e costruzione del talento, avere a che fare con un gruppo anziano e in evidente difficoltà può essere un problema, non soltanto per la stagione attuale, dove un primo turno playoff addirittura potrebbe anche essere superato, ma per il prosieguo con il rischio di rimanere bruciati quando anche il talento di TP e Manu dovesse finire altrove.
Le ultime voci parlavano di una clamorosa trade che porterebbe Lebron e “qualche cosa di Cleveland” all’Alamo per Leonard, Aldridge e qualche scelta di contorno, ma anche qui si fa fatica a crederne la veridicità. Chi si aspettava che Popovich pescasse dalla free agency qualche coniglio dal cilindro o qualche cavallo di ritorno (magari Diaw?) è rimasto deluso. Bisognerà resistere, provare a dare fiducia ai giovani e sperare che quello di Leonard possa essere solo un temporale passeggero. Sappiamo che l’ambiente Spurs prescinde dal talento ed è fondato dalle persone (vedi gli esempi di Spanoulis e DeColo) ma se è proprio un uomo chiave ad andarsene, potrebbe prospettarsi un periodo cupo, ben più di una possibile, quanto mai sofferta, esclusione dai playoff.