CURRY, FOR THREE: BANG!
D’Angelo Russell e Ice in My Veins. Russell Westbrook e la pistola riposta nella fondina. Carmelo Anthony e le tre dita battute sulla tempia. Tutte esultanze successive a un canestro che tutti noi, a prescindere dalla bellezza del canestro, abbiamo provato a replicare almeno una volta nella vita. L’iconografia e il misticismo del culto NBA si nutre anche attraverso piccoli rituali. E anche uno degli ultimi sacramenti facenti parte del cursus per la santificazione dei fedeli non rappresenta un’eccezione. Il tiro da 3 punti, introdotto nel regolamento americano nel 1979, non era mai stato ufficialmente istituzionalizzato sino all’arrivo dei Golden State Warriors. Come un Concilio Vaticano, Curry e l’organizzatissimo caos in maglia gialloblù hanno redatto la Regola.
Permesso di difendere a zona in modo da difendere meglio il ferro? Perfetto: segneremo da più lontano. Allargheremo il campo. Saremo pericolosi in ogni istante e da ogni distanza non appena sorpasseremo la linea di metà campo. Il battersi il petto e indicare il cielo con l’indice non è considerato così cool? Senza Steph, il concetto di cool legato al festeggiare una tripla neanche esisterebbe. Curry è la rivoluzione. E’ il prototipo e ultimo modello allo stesso tempo. Steph esaspera la velocità spasmodica del cambiamento tecnico che plasma il Ventunesimo secolo. Più che schiacciare, i bambini nel mondo sognano di infilare il pallone del cesto dalla maggior distanza possibile. Curry è essenza e materia. Tirare da ogni posizione, per ogni essere umano, non è scelta consigliata. Per Steph no. Anzi, ci sorprenderemmo se Chef tentennasse di fronte a un mezzo metro libero davanti a sé.

Ogni tiro è un buon tiro. Impressionante. La possibilità di posterizzare gli avversari con una bimane è legata insicindibilmente alle doti atletiche affidateci dalla genetica. Segnare da 9 metri è sicuramente più semplice. Basta lanciare la palla in aria e, complice una buona dose di fortuna, tutti possiamo farlo. Anche chi una palla arancione a spicchi la prende in mano per la prima volta. Se negli anni ’90 e ’00 l’arte della tripla era affidata a “specialisti” sovente limitati nel fisico, ora è prerogativa quasi normativa per mettere piede in campo. Che tu pesi 50 kg bagnato, che tu sia il più alto in campo, che la tua pancia sia più rotonda della palla o che, confrontato a te, Spud Webb assomigli a Yao Ming. Senza Stephen, non si parlerebbe di tutto questo. In grado di assorbire ogni singolo attestato di stima e fiducia nelle voci e nei gesti di chi nel suo rilascio fulminante vedeva barlumi di magnificenza sin dai tempi della high school, “The Golden Boy” instilla nel cuore trasognante di ogni bambino l’illusione di poter raggiungere le sue vette. Perché Steph appare come uno di noi. Col movimento di piedi ancorato al terreno, con l’arco della sua parabola che sfiora le sfere celesti. Curry è la Rivoluzione poiché ci regala il sogno ma, allo stesso tempo, ci rende consapevoli che nessun traguardo si taglia per caso. Citando il Sancho Panza del Don Chisciotte della Baia, non si diventa grandi per sbaglio.