Vezenkov, da dove parte l’MVP: “Da giovane vieni giudicato da un allenamento”

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Derby greco
Credits Thrylos24

L’ex MVP di Eurolega e campione dell’Olympiacos Sasha Vezenkov, ha parlato della sua carriera ai microfoni di GBL e ha iniziato dagli albori quando giovanissimo ha mosso i primi passi. Quanto è stata difficile e le sliding doors.

Per scoprire se il basket fosse la tua strada hai dovuto lasciare Cipro. Così è arrivata la scelta dell’Aris. Ti ricordi quella decisione?

Sì, avevo 14 anni. La prima connessione con Mantoulidis è avvenuta nell’aprile di quell’anno, grazie a coach Nikolaidis.
Sono andato a fare tre ore di allenamento per farmi vedere, per capire se andavo bene, se potevo piacere loro, e tutto è andato bene. Mi hanno detto: “Finisci la scuola media a Cipro, mancano due mesi, finisci il campionato lì e ti aspettiamo da luglio.” Io, ragazzino di 14 anni, non capivo bene. Pensavo: “Il Mandoulides è una buona scuola, da lì sono usciti molti giocatori.” Inoltre, un mio amico di Cipro, Andreas Christodoulou, sarebbe andato lì, quindi pensavo che avrei avuto compagnia.
Ma le cose cambiarono. All’inizio mio padre cercò di convincere l’Aris a darmi un’opportunità. Loro risposero che avevano già altri ragazzi, ma che mi avrebbero guardato. Ovviamente non li biasimo: un ragazzo di 14 anni da Cipro, non potevano sapere chi fossi. Probabilmente tanti genitori dicevano: “Mio figlio è bravo.” Mio padre chiese solo un allenamento per farmi vedere.

Il turning point:

Poi ci fu una partita amichevole a Kymi con la Nazionale, dove giocai bene. In quell’occasione, se non sbaglio, mi vide Giannis Demianidis, che chiamò mio padre dicendogli: “Porta tuo figlio in ufficio.” Noi avevamo già un accordo verbale con il Mandoulides, ma lui insistette: “No, portalo qui.”

Ed è così che successe qualcosa di inatteso. Stavamo andando al Mandoulides, ma facemmo una deviazione. Parlammo con gli allenatori dell’Aris, ed era chiaro che la loro proposta era un’opportunità unica. L’Aris, in quel periodo, era un nome importante nel basket. Mio padre, che aveva giocato negli anni ’80 contro l’Aris, capì quanto fosse importante. Per un ragazzo di Cipro o di Bulgaria, entrare nelle giovanili dell’Aris era qualcosa di speciale.

Capisco che gli allenatori vogliano vedere un giocatore da vicino. Penso però che la decisione fosse già presa, e che l’allenamento servisse solo a confermare le loro impressioni. È difficile giudicare un ragazzo da un solo allenamento, ma è così che funziona il basket: anche in una partita si può essere giudicati per un’azione.

L’Aris

Quando arrivai all’Aris, fu un’esperienza unica. All’inizio non giocavo molto perché ero molto giovane. Facevo solo allenamenti con la squadra principale, ma già quello era un grande passo. Poi arrivò una stagione in cui non avevamo stranieri, e il coach Aggelou decise di dare spazio ai giovani. Fummo fortunati, ma approfittammo delle opportunità.

In quegli anni ho imparato tante cose: come allenarmi meglio, come mangiare in modo corretto, come prendermi cura del mio corpo. All’epoca, giocavo solo per amore del basket. Mi allenavo e giocavo senza pensare troppo. Quando passai a livelli più alti, capii quanto fosse diverso il mondo dei professionisti.

Gli anni all’Aris furono i più belli della mia vita, i più romantici e puri. Giocavo a basket, andavo a scuola, conoscevo nuove persone. Mio padre faceva cinque ore di macchina dalla Bulgaria ogni venerdì per venire a vedermi e tornare indietro. La mia famiglia sacrificò tutto per me. Mia madre lasciò il suo lavoro per trasferirsi con me a Salonicco, in una città dove non conoscevamo nessuno. Le devo tutto, e capirò davvero il suo sacrificio solo quando avrò dei figli miei.

 

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