Sasha Vezenkov, leader dell’Olympiacos e uno dei migliori giocatori del vecchio continente ha rilasciato una lunga intervista al podcast greco GBL TV per parlare della sua carriera. Nel racconto si è soffermato su un aneddoto molto curioso riguardante lui, Nikola Jokic e i Denver Nuggets, ovvero l’unica cosa di cui si è pentito in carriera.
Dire no a Jokic
Riguardo a Barcellona, ti dirò, è una storia interessante. Durante il mio primo anno giocavo poco, 7-8 minuti a partita, non avevo la giusta mentalità. Il mio agente mi disse di dichiararmi per il draft NBA. Io gli risposi: “Quale draft? Nico, chi dovrebbe prendermi se non gioco nemmeno in Eurolega?”. Non sapevo come funzionasse l’NBA, pensavo: “Se non giochi in Europa, come puoi giocare lì?”.
In quel periodo, Jokic mi chiamò al telefono, ma non il Jokic di adesso, tre volte MVP, ma quello del 2016. Mi disse: “Sei voluto dalla nostra squadra, vuoi venire?”. Io gli risposi: “Nikola, verrei, ma non gioco nemmeno qui”. Lui mi disse: “Qui è diverso”. Avevano appena preso Juancho Hernangomez e puntavano sugli europei. Mi chiamò anche Malone, l’allenatore, dicendomi che mi volevano, ma non me la sentii di andare. Avevo l’insicurezza di un ventenne: “Non gioco qui, rimango per giocare”. L’anno successivo, con il coach Bartzokas, giocai meglio, ma Denver perse interesse: “Ora hai 22 anni, ti volevamo l’anno scorso”. Credo sia l’unica cosa di cui mi pento. Quando persone come quelle ti chiamano, e poi diventano campioni NBA o i migliori giocatori, un po’ ci pensi. Ma sono felice del mio percorso. È una storia che non conoscono in molti.
Olympiacos e Covid:
Poi arriva coach Bartzokas, e piano piano il mio ruolo cresce, anche la pressione, ma non amo chiamarla così. Per me non dovrebbe esserci pressione. Facciamo ciò che amiamo. Questo è uno dei vantaggi dell’NBA. Alla fine, giochiamo uno sport che ci piace, per far divertire il pubblico e sentirci importanti. Nei Balcani, però, si vuole sempre il risultato, i titoli, le vittorie. Questo perché la gente è più coinvolta, i giornalisti sono tanti, tutto è amplificato.
Devo dire che il COVID mi ha aiutato molto a lavorare. Ho avuto tempo nel 2021 per allenarmi tanto, e con il tempo la fiducia cresce. Più lavori, più sei sicuro di te, perché sai che hai lavorato duro. Se perdi fiducia in una partita, tornerà grazie al lavoro. Cerco di lasciare la pressione fuori, dimostrare in ogni partita di essere importante, di aiutare la squadra a vincere, ma cerco anche di costruirmi un ambiente che mi supporti senza farmi sentire troppe pressioni, ma che sappia guidarmi.
Durante il COVID, ricordo di essermi isolato in Bulgaria, lavorando tantissimo. Il palazzetto era sempre aperto per noi. Quattro mesi nel 2020 e quattro nel 2021 mi hanno permesso di migliorare molto, sia fisicamente che tecnicamente.
E arriva la seconda chiamata NBA:
Quando arrivò l’NBA, fu una decisione difficile. Non lo feci per i soldi o per il prestigio, ma lo dovevo a me stesso. Un ragazzo nato a Cipro, da genitori bulgari, che arriva in NBA. È stato difficile, ma sono felice di averci provato. È stata un’esperienza unica, nonostante le difficoltà.
Cosa mi è piaciuto dell’NBA? Le strutture sono incredibili. Puoi stare tutto il giorno nel centro sportivo, pensi solo al basket. Avevi accesso al palazzetto anche di notte, potevi allenarti a qualsiasi ora. Questo mi ha colpito molto. Ovviamente, il rispetto per i giocatori è altissimo, tutto è organizzato in grande.