NBA, All Star Game: obtorto collo

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ALL STAR GAME

Il concetto di ipostasi è notevolmente mutato nel corso degli ultimi secoli. Nella sfera cristiana questo si riferisce al processo grazie al quale il concetto di Assoluto si trasforma in esistenza sostanziale: la Trinità non si spiegherebbe altrimenti. In un’epoca come quella contemporanea, al contrario, il termine ha assunto una concezione prevalentemente negativa, indicando la pretesa ontologica di un principio reale relativo. La nostra forma mentis, totalmente incentrata attorno ai concetti di razionalità e di calcolo, favorisce così la venerazione imperante del Dio Denaro che, da mezzo, viene trasformandosi in origine, fine e giustificazione di ogni nostro comportamento. Anche Adam Silver, non solo Adam Silver, soprattutto Adam Silver, in quanto commissioner della lega sportiva professionistica in maggiore espansione al mondo, non si può esimere dal considerare come le casse della NBA stiano languendo causa COVID-19. Chiariamo: non siamo ai livelli dell’Oro alla Patria. Ma come sostenere in altro modo la necessità di disputare l’All Star Game il prossimo 7 marzo in quel di Atlanta?

LA FORZA GRAVITAZIONALE DI UNA BANCONOTA

LeBron James. Kawhi Leonard. Giannis Antetokounmpo. De’Aaron Fox. James Harden. No, non sarà uno dei due quintetti che si affronteranno alla partita delle stelle. Sono coloro che hanno espresso pubblicamente le proprie perplessità riguardo la scelta della Lega di organizzare l’evento. Gli esponenti sono tra i più autorevoli. Il dato fa ancora più riflettere, considerando che la scelta di organizzare l’evento è arrivata in seguito all’approvazione del sindacato giocatori della NBPA, coordinato dall’attuale playmaker dei Phoenix Suns Chris Paul. Quello del 2021 sarà, nel bene o nel male, un ASG storico: inizialmente previsto a Indianapolis, successivamente cancellato, in seguito riproposto in una sede più congeniale alla Lega.

Come si era optato per Orlando in quanto sede degli ESPN Studios, ora si è virati sulla capitale della Georgia poiché dimora degli studi di TNT, principale broadcaster del mondo NBA. Ciò che fa storcere il naso non è però l’inatteso spostamento nel profondo Sud: la Bankers Life Fieldhouse e l’Indiana intera, stato dove l’unico credo è la palla a spicchi, saranno ricompensati con l’edizione del 2024. Ciò che fa storcere il naso sono le tempistiche e le modalità comunicative, evento più unico che raro in un ambiente come quello NBA da sempre all’avanguardia nel settore. Silver e soci avranno sicuramente valutato nei minimi dettagli i pro e i contro di una decisione destinata a far discutere e riflettere. Quanto conta effettivamente l’opinione del sindacato NBPA? Quanto pesano le speculazioni economiche attorno a un evento magnetico come l’ASG? Davvero l’NBA vive una restrizione finanziaria così grave da dover ricorrere a questo “surrogato” pur di racimolare il minimo guadagno?

“L’NBA è la Lega dei giocatori”. “La player power è in crescita esponenziale”. “Ormai si mettono d’accordo tra di loro per giocare insieme, il GM è inutile”. Chissà quante volte avrete sentito queste frasi o simili inerenti al potere assunto dai cestisti oltreoceano. Il punto di svolta rivoluzionario è da identificarsi nel Draft 1984. Quel Draft. The Dream a Houston, Bowie a Portland, Michael Jeffrey Jordan ai Bulls. L’avvento di His Airness non segnerà la storia solamente del Gioco: affidato alla cura dell’agenzia di David Falk, Jordan rivoluzionerà anche il rapporto tra le star e la franchigia di appartenenza. Da metà anni ’80 in poi, infatti, sempre più giocatori saranno in grado di imporre le proprie volontà al momento di rinnovare o meno accordi contrattuali a sei o sette zeri. Le varie dirigenze, allarmate dalla possibilità di perdere competitività e appeal mediatico a causa della dipartita della stella, nella maggior parte dei casi si sono trovate ad accondiscendere a richieste economiche impreviste pur di accontentare i propri big dawg. Lo scontro tra Lega, proprietari e giocatori rimase tollerabile per un decennio, fino a quando le richieste riguardo una ridistribuzione più equa dei crescenti diritti televisivi e l’aumento del salario minimo garantito portarono a tre lockout a stretto giro di posta (1995, 1996, 1999). I primi due non comportarono la cancellazione di partite, mentre il carisma e la perseveranza di Pat Ewing fecero slittare l’inizio della stagione ’99-’00 di un paio di mesi, riducendo il numero di stagione regolare da 82 a 50. Analoga sorte si è riproposta nel 2011, dove molti giocatori fecero addirittura in tempo a trasferirsi qualche mese in Europa o in Asia per mantenere il ritmo partita mentre i loro rappresentanti, tra i quali spicca il nome di Derek Fisher, giunsero ad un accordo solo all’alba dell’8 dicembre, consentendo l’inizio della nuova stagione in concomitanza con la Christmas Night.

Proprio dall’ultimo agreement, il potere negoziale dei giocatori ha raggiunto livelli mai toccati prima. Il complicato calcolo del tetto salariale, nonostante le imposizioni della NBA, pesa in maniera non indifferente tra le spese di una società ed è in costante aumento; le clausole presenti nei contratti NBA vanno via via moltiplicandosi, nutrendosi di eccezioni, diritti maturati nel corso di militanze pluriennali nella stessa squadra, garanzie in casi di infortuni, aumenti nel caso di premi e riconoscimenti individuali… Nei casi più estremi, alcuni atleti potrebbero teoricamente inserire la cosiddetta No Trade Clause, rifiutando a prescindere qualsiasi proposta di scambio (al momento nessun contratto NBA la prevede, ma in passato LeBron e Carmelo Anthony ne hanno beneficiato). Anche la presenza o meno all’All Star Game è contemplata tra le opzioni per spillare qualche ulteriore presidente spirato? Ovviamente. Anche per giocatori che, per il bene del gioco, si spera che quel campo lo vedano col binocolo? Ovviamente.

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